MUSICA SENZA FILOSOFIA
Parte quattordicesima e ultima
Filosofi come Martin Heidegger e Theodor Wiesengrund Adorno sono stati
e sono lontanissimi tra loro, non soltanto per le vicende umane e le scelte
che li fissano nella nostra memoria a un'immagine e talvolta a un demerito,
fonte di rovinose conseguenze, ma soprattutto per l'angolo visuale dal
quale ciascuno di essi si è riconosciuto in una propria origine.
Senza dubbio, se i filosofi si dedicassero ad osservare gli esiti del loro
pensiero, anziché scavare continuamente nel proprio terreno, il
panorama apparirebbe più ordinato e omogeneo. Si dice spesso che
è l'eterogenità del moderno che rende caotico l'orientamento
intellettuale, ma la vera fonte di tale eterogeneità è piuttosto
il passato.
Eppure, un'acutissima frustrazione vissuta con disincanto che è
spesso sconsolato senso di sconfitta accomuna Heidegger e Adorno, e con
loro un'intera generazione di maestri. La frustrazione è lo stato
soggettivo lasciato nelle coscienze filosofiche da un volitante paradosso,
uccello di malaugurio della nostra epoca. Anzi, da una catena di paradossi.
Il pensiero moderno, irrobustito dalla scienza, si è teso nello
sforzo immane di oggettivare il mondo. Nella sua fase culminante, al colmo
del suo progetto di rafforzare al massimo grado lo strumento di tale oggettivazione,
cioè l'Io pensante, la ragione, la Vernunft kantiana, ha
dovuto ammettere che l'irrobustimento del pensiero pensante era divenuto
ipertrofia del soggetto-pensiero, troppo vigoroso e corazzato per non schiacciare
inevitabilmente il mondo, ridotto a un fantasma. Il mondo era divenuto
pensiero, l'oggetto era stato interamente assorbito dall'Io penso, il noumeno
sfuggiva dietro il fenomeno poiché il vero noumeno era il soggetto
teso a distinguere tra fenomeno e noumeno. Tutto il mondo era divenuto
fenomenico, quindi soggettivo. Ma poiché lo sforzo oggettivante
era inarrestabile, l'oggettivazione, al di là degli intenti, si
era attuata, ed è ingigantita negli ultimi due secoli; solo che
le verità non si erano oggettivate in realtà, bensì
in "cose", ingombranti testimoni di un divorzio tra io e mondo.
Verità suprema, l'arte; tanto più dolorosa la sua reificazione.
Ancora più dolorosa la reificazione della musica, fra le arti la
più libera, per qualità e definizione, dal rischio d'identificarsi
con una merce o con un relitto dei tempi. Le opere dei pittori e degli
architetti "appartengono" in quanto tali a qualcuno, o a una collettività
(spesso, ahimé, allo Stato). La Primavera di Botticelli è
quel quadro, non è un universale, ed è agli Uffizi
e non altrove. Non è un universale, anche se significati universali
vi si nascondono. La cattedrale di Chartres è quella e non
altra, e il tempo la logora materialmente; una volta distrutta, sarebbe
distrutta per sempre. La poesia non dipende dalla sopravvivenza di un oggetto
materiale, ma la possibile scomparsa del suo veicolo linguistico e del
suo codice semantico ne vanificherebbe l'esistenza. Sarebbe anch'essa una
distruzione. La musica, per natura, sembra indipendente da ogni materia
collocata hic et nunc nello spazio e nel tempo, è un'idea
capace d'incarnarsi in eterno in un'esecuzione, o anche in una rievocazione
puramente mentale. Tuttavia, anch'essa è divenuta "cosa". E' soggetta
allo scambio di favori, al mercato, all'industria che la riproduce e la
contrassegna con una graduatoria di pregio, persino con un cartellino di
prezzo. E' usata come lenocinio attraente per vendere meglio una merce.
Nell'era della riproducibilità tecnica, secondo la geniale analisi-denuncia
di Walter Benjamin, anche la musica subisce logorìo e degrado.
Qui s'inserisce un altro paradosso. La reificazione della musica (dell'arte)
è l'umiliazione del musicista compositore (dell'artista), soprattutto
del musicista di oggi rispetto a quello di ieri. Ma la reificazione è
divenuta un processo inevitabìle nel momento in cui l'artista si
è fatto avanti con prepotenza irrompendo nell'opera d'arte. Ogni
opera d'arte, ogni musica ha materialmente e storicamente un autore, ma
la realtà integrale di una musica (di un'opera d'arte) è
il suo essere nel mondo, non il mero evento della sua nascita. Sono esistite
fasi in cui l'opera è più importante del suo autore, invisibile
nell'alone che essa irradia, e in cui l'arte in quanto universale possibilità
e nodo di possibili realizzati o non realizzati è più importante
dell'opera "già fatta". L'artista si nasconde dietro la propria
creatura, si avvolge nel proprio sistema universale di norme e di potenzialità:
o plasas efanisen è l'immortale frase di Aristotele: "è
proprio dell'artista scomparire" per dar luogo all'arte che lo trascende.
Nell'arco di tempo che vede l'artista, non più "mastro" ma "Maestro",
assumere individualità traboccante, l'opera d'arte si individualizza,
assume concretezza ma tende a farsi "cosa". Il momento in cui essa ridiventa
più importante del suo autore (i Girasoli di Vari Gogh valgono
oggi agli occhi dei nostri contemporanei incomparabilmente più di
quanto i contemporanei del pittore non valutassero lui, pover'uomo impresentabile
in società) è la sua vendetta; ma un'amara vendetta, che
fissa l'opera e la rende schiava. Decisivo, infatti, non è di quanto
l'opera sia valutata più del suo autore, ma che ad essa sia
inflitta una valutazione quantitativa.
Sulla reificazione della musica convengono dunque filosofi diversissimi
come Heidegger, Benjamin, Merleau-Ponty e Adorno. E' Adorno colui che più
ha battuto su questo chiodo, e tentando di capire il suo stato d'animo
vogliamo concludere questa nostra serie di note sul rapporto tra musica
e filosofia. L'atto filosofico e quello artistico sono inassimilabili e
spesso ostili, tanto da escludersi dinanzi a verità estreme; un
tratto essi hanno in comune, ed è la libertà dalla dialettica
storica cui soggiace l'atto economico, politico e giuridico, ma anche l'atto
etico, la cui relatività è fuori discussione. La filosofia
di Adorno è pensiero debole, tanto critico e analitico da porre
in discussione le stesse categorie della scepsi, e segue l'esistente, descrivendolo
a posteriori, per catturarlo meglio e per frantumarlo. Così il pensiero
debole ha una sua amara unità, e poco o nulla è in esso determinante
la cosiddetta evoluzione delle idee. Ascoltando le parole di Adorno possiamo
seguire un percorso a ritroso, indifferente al prima e al poi, e partire
dai suoi testi più tardi per approdare a quelli del periodo di mezzo.
La Negative Dialektik, scritta tra il 1959 e il 1966, nega in primo
luogo la condizione attuale del mondo e apre la visione su ciò che
non è, sull'utopia. La condizione denunciata è anche la condizione
attuale dell'arte e in particolare della musica, fra le arti la prediletta
da Adorno, musicista e compositore in proprio. Il libro negherebbe così
anche la musica a noi contemporanea e la legittimità di chi la produce,
così come negherebbe la filosofia di oggi e dichiarerebbe impossibile
essere filosofi oggi. La negazione ha un palese sapore marxiano. Eppure,
Adorno rivendica la filosofia contro la condanna di Marx poiché
"è stato mancato il momento della sua realizzazione", la rivoluzione
non c'è stata o è abortita, e quindi il pensiero filosofico
deve continuare ad opporre alla malsana totalità dell'esistente
il suo gesto dimesso e insieme deciso, impotente e insieme suggestivo.
In questa prospettiva, il musicista (l'artista) deve rifiutare qualsiasi
integrazione nel sistema economico, pubblicitario, professionale, poiché
una sua omogeneizzazione avrebbe in sé la stessa logica di Auschwitz:
la negazione di ogni significato individuale, fino all'eliminazione fisica
dell'individuo. Nella Aesthetische Theorie uscita postuma nel 1970,
un anno dopo la morte dell'autore, Adorno sviluppa i temi precedenti in
una generale visione delle arti in cui la musica ha, come sempre in lui,
la funzione più rappresentativa e riassuntiva, trattandosi di un
caso estremo. Non esiste storia delle arti come evoluzione, ma un insieme
di nodi e di fratture. I segni dello sfacelo sono il sigillo di autenticità
della musica moderna, ciò mediante cui essa nega disperatamente
la compattezza del sempre uguale. L'esplosione è una delle invarianti
della musica moderna. La musica di oggi è un mito rivolto contro
se stesso; "nell'atemporalità del mito, l'attimo che spezza la continuità
temporale trova la sua catastrofe". La nostra postilla a questa frase di
Adorno è: ciò che rende terribile il rapporto odierno tra
musica e pubblico è la necessità della musica di oggi, l'unica
sua possibile autenticità.
La musica, continua Adorno, è il modello strutturale del nostro
tempo. "Il rapporto della musica con il tempo musicale inteso in senso
formale si determina unicamente nella relazione che con esso ha il concreto
accadere musicale". Ma oggi la musica si ribella contro l'ordinamento temporale
voluto dalla tradizione. Ne deriva che oggi la musica, se vuol essere nuova,
dev'essere senza eccezioni un atto violento. Di tale atto violento, Adorno
ha vissuto in pieno l'esperienza come compositore in prima persona. La
sua scelta di vita e di pensiero contro il "sistema musicale" costruito
dalla tradizione e identificato con l'esistente come categoria filosofica
lo attrasse per consonanza naturale verso il radicalismo della Wiener
Schule, ma il riconoscimento del nominalismo astratto connaturato nella
tecnica di composizione con dodici suoni (Zwölftontechnik)
lo ha reso a sua volta un "eretico rispetto a ciò che la Wiener
Schule aveva eretto ad ortodossia", come ha scritto Clytus Gottwald,
che di Adorno fu stretto amico, a proposito dei Frauenchöre
di lui. Nel mondo d'oggi, la reificazione della musica fa sì che
sia "cosa" qualsiasi aggregato di suoni, qualsiasi sistema, quindi anche
una serie costruita secondo la Zwölftontechnik. La forma, quale
che essa sia, è già un apparato consolatorio; essa va fatta
esplodere. Altrimenti (ed è questa l'idea fondamentale circolante
nella Philosophie der neuen Musik, del 1949) ogni possibile autenticità
rischia di essere sacrificata al suo altare. Il dilemma adorniano è
tra la distruzione dell'autenticità nella musica (quindi, la sua
fatale traduzione in "cosa") e la distruzione dell'esistente (quindi, la
cancellazione di ogni possibilità "storica" per la musica d'oggi).
Mai come nella seconda metà del nostro secolo, in fondo più
"tradizionale" nei prodotti musicali che non la prima metà, la filosofia
si è allontanata da qualsiasi funzione giustificativa nei confronti
della musica, e la musica, di conseguenza, non ha oggi una filosofia cui
riferirsi. In questa fin-de-siècle la musica non ha alcuna
intenzione di realizzare la profezia di Adorno il possibile e addirittura
prossimo avvento di una lunga era senza musica - ed appare anzi inventiva
e fertile, così come la filosofia mostra una grande forza amalgamatrice
nei confronti della cultura e della società. Il vuoto filosofico
della musica d'oggi deriva, piuttosto, dal fatto che la filosofia ha "sospeso
il giudizio" sulla musica, e questa epoché trattiene o rallenta
i nostri passi. Il territorio della musica è vasto, ma dove sono
i segnali indicatori? 0 se ve ne sono, somigliano fin troppo a quelli delle
autostrade intersecate da raccordi anulari, dove l'eccesso di zelo semiotico
indica, ad un tempo, troppo e nulla.
Quirino Principe
(Musica Viva, Anno XV n.3, marzo 1991)