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Columbia
- 1 LP - 33QCX 10026 - (p) 12/1953
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Columbia
- 1 LP - 33CX 1103 - (p) 12/1953 |
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Warner
Classics
14 CDs - 0190296739200 - (p) & (c)
2021 |
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Ludwig van
Beethoven (1770-1827) |
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Quartetto
n. 13 in si bemolle maggiore, Op.
130 |
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39' 51" |
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Adagio ma non troppo - Allegro
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10' 01" |
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Presto |
2' 15" |
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Andante con
moto, ma non troppo |
7' 35" |
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Alla danza
tedesca (Allegro assai) |
3' 13" |
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Cavatina (Adagio molto
espressivo) |
7' 00" |
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Finale (Allegro) |
9' 46" |
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QUARTETTO
ITALIANO
- Paolo Borciani, Elisa Pegreffi, violino
- Piero Farulli, viola
- Franco Rossi, violoncello
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Luogo e data
di registrazione |
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Milano (Italia) -
7/9 luglio 1953 |
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Registrazione: live
/ studio |
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studio |
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Producer / Engineer |
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Prima Edizione LP |
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Columbia | 33QCX 10026 -
(Italy) | 1 LP | (p)
1953 | Mono
Columbia
| 33CX 1103 -
(England)
| 1 LP | (p) 1953 | Mono
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Prima Edizione CD |
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Warner Classics |
0190296739200
| 14 CDs [CD3] - 39'
51" | (p) & (c) 2011 | Mono |
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Note |
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È ormai
chiaro che
Ludwig van
Beethoven non fu
soltanto un
genio musicale
di primissimo
piano, ma colui,
ancora, che
assunse nella
musica una
posizione
personale del
tutto inedita,
del tutto nuova
e imprevista.
Tanto che il
beethovenismo
oltre che a
costituire una
maniera, uno
stile, un
carattere
specifico di
linguaggio
sonoro, costituì
pare un fatto
umano e morale;
la candidatura,
non mai prima
posta, di un
musico, ad
apostolo di una
particolare
concezione del
mondo, ad
assertore di una
verità
intravista, di
una fede
acquisita,
ansiosa di
comunicarsi. Con
l'avvento di
Beethoven,
l'arte della
Musica intese
rivestire i
lineamenti
dell'etica;
intese farsi
testimonio di un
dramma
individuale
(dramma svelato
per fraterna
carità, per atto
solidale, per
coscienza di
rappresentare
una sorta di
prototipo) e
infine additarci
la strada per
superarlo.
L'atto primo di
codesta parabola
consistette in
una coraggiosa
discesa dentro
gli abissi
dell'anima; in
un'indagine
spietata e in
un'eroica
annotazione di
ogni suo
contrasto,
d'ogni sua
insofferenza,
d'ogni sua
rivolta contro
il destino. Già
questo mettersi
a nudo, già
questo rivelare
la propria
crocifissione,
adeguandosi alle
condizioni di
tutti i suoi
simili, era un
assunto
magnanimo e
consolatore. Ma
la grandezza di
accento, con cui
questo rapporto
veniva
presentato
conferiva per se
stesso, alla
tragicità
dell'umana
sorte, un
lineamento
eccezionale, un
segno di
necessità
arcana, una
prova del suo
essere come
prezzo
indispensabile a
una successiva
elevazione e ad
una successiva
catarsi. Per
ascendere alla
luce e alla
pace, cui era
chiamato dal suo
desiderio e
dalla tendenza
spontanea della
sua essenza
spirituale,
l'uomo doveva
bruciare tutto
il suo dolore;
doveva
consumarlo
vivendolo,
scoprendone le
ferite,
esaurendo, senza
reticenze, lo
smarrimento e la
disperazione. Un
simbolo antico,
il simbolo di
Prometeo ribelle
agli dei per
ansia di
soccorrere gli
uomini,
rinunciatario
della felicità
divina per
impulso a
spartire
l'infelicità
degli uomini, il
mito di
Prometeo, pronto
a sostituire con
la sofferenza il
brutale oblio
delle creature
purchè da tale
sostituzione
nascesse una
coscienza virile
dei propri
compiti e dei
propri doveri,
svelarsi
nell'esistenza e
nell'opera di un
solitario
artista, figlio
di una cuoca e
di un volgare
musicante, nel
pellegrinaggio
terreno di un
artista duro e
traboccante
d'amore, nemico
della società
per eccessiva
brama di volerla
perfetta,
proteso verso
l'avvenire come
a solo e
possibile paese
d'ogni speranza.
Simile volontà
di Beethoven,
simile impegno e
simile
addossarsi di
responsabilità
non ancora
affrontate,
simile decisione
di vivificare il
contenuto della
musica con la
presenza di una
idea, s' da
farne un lungo e
quasi sanguinoso
apologo, doveva,
necessariamente,
sconvolgere ogni
ordine
prestabilito e
sottoporre ogni
forma a una
tensione
massima, a una
disgregazione
totale, d'onde
sarebbe poi
sorta una nuova
architettura. In
Beethoven, il
drammatismo non
scaturì più da
situazioni
predisposte e
antecedenti il
contatto con la
musica (così
come avveniva
nel caso del
teatro); non
andò più
sviluppandosi,
fatalmente, dal
giuoco serrato
delle entità
sonore (così
come avveniva in
certi momenti
della
composizione
sinfonica e da
camera), ma fu
ricercato e
attuato con
avida, con
rigorosa
consapevolezza.
L'ideale non
venne più
situato nella
purità
cristallina,
nella celeste
giustezza d'ogni
movimento,
d'ogni linea,
d'ogni rapporto,
bensì in quella
che apparve come
verità del
proprio essere
umano e nella
fedeltà ad una
missione
profetica. Se
Beethoven avesse
potuto disporre
della cultura
letteraria di un
Wagner e se, ai
suoi tempi,
anche un uomo
spregiudicato e
avventuroso
quanto lui
avesse potuto
concepire che un
musicista
scrivesse da sè
i propri
libretti, forse
un così forte
empito
drammatico si
sarebbe risolto
nella creazione
d'opere teatrali
e si sarebbe
espresso per via
di allegorie,
per via di
sdoppiamenti nei
caratteri
scenici. Educato
fin da giovane
allo stile
istrumentale e
troppo geloso di
libertà, di
sincerità,
intesa come
obbligo
insormontabile,
Beethoven elesse
a campo di
battaglia la
Sinfonia, la
Sonata e i
generi affiniti
della musica da
camera. Di qui,
egli si sentiva
più atto a
cogliere in
pieno il
bersaglio; qui
non avvertiva
ostacoli o
pericoli di
deviazioni. Qui,
il transito dal
mondo interiore
al mezzo
materiale per
comunicarlo
poteva compiersi
direttamente,
per la strada
più breve. Fu un
viaggio lento e
faticoso, tutto
segnato di
perplessità e di
abbandoni. Quasi
un rimorso,
talvolta, nel
dover
distruggere le
paradisiache
forme di Haydn e
di Mozart. Ma lo
schema della
Sonata prese, a
poco a poco, un
aspetto
intieramente
diverso.
Incominciarono a
dilatarsi i
quattro "tempi"
classici; a
incidersi, più
profondamente,
il contrasto fra
prima e seconda
idea. Cessò il
Minuetto di
rievocare, con
maggiore o
minore
precisione,
relegante passo
di danza, e, in
suo luogo,
esplose lo
Scherzo,
travolgente,
tempestoso,
ferrigno, spesso
sarcastico e
quasi brutale.
Poi, i quattro
"tempi" di
prammatica si
fecero più
numerosi,
riproducendosi,
non di rado,
anche per brevi
e inaspettati
ritorni. Il
corso
inflessibile
degli "allegro"
subì improvvise
fratture; in
certi punti
culminanti degli
"sviluppi",
chiaramente tesi
verso una
conclusioue, si
trovarono
polverizzati ad
un tratto,
inceneriti,
cancellati da
fulminei
silenzi, come da
catastrofi o
come da un
annichilirsi
d'ogni forza
vitale. E i
limiti delle
sonorità si
allargarono,
verso il più
acuto e verso il
più grave; i
moti
contrappuntistici
divennero più
spericolati;
talune melodie
si compiacquero
di conservare
uno stato
primordiale, di
mantenersi
pressochè
informi per non
tradire il loro
essere di
immagine non ben
determinata e
non ben
posseduta. La
Sinfonia, la
Sonata, il
Quartetto si
tradussero in
lunghi e
complessi poemi;
sul gorgo
dell'orchestra
si librò infine
anche la voce
umana. Ora, noi
possiam ben dire
che la
rivoluzione
beetboveniana,
se risulta più
appariscente (e
quindi è
diventata più
popolare)
attraverso le
nove Sinfonie e
attraverso
taluna delle
Sonate per
pianoforte,
ritiene la più
alta
espressione,
offre il suo
documento più
vivo negli
ultimi Quartetti
per archi. Negli
anni 1824, 1825
e 1826, presago
della fine
imminente,
malato e
bisognoso di
tutto ("miser et
pauper",
com'egli stesso
ebbe a dire) il
grande maestro
era già trasceso
oltre la vita.
Le linee
dell'immenso
mondo, creato in
trent'anni di
accanito lavoro,
si andavano
serrando entro
disegni sempre
più complessi ed
astratti. Ogni
esperienza ed
ogni sensazione,
ogni gioia ed
ogni dolore,
ogni vicenda di
un'esistenza
pensierosa,
china sul
profondo
dell'anima e
aperta a un
contatto mistico
con la natura e
con gli uomini,
si concretavano
in superbe
invenzioni, ove
nulla si trovava
dimenticato ed
ove tutto
rivestiva
l'aspetto di
cosa nuovamente
scoperta. Il
persistente
dramma dello
spirito
beethoveniano si
innalzava a tal
punto da farsi
scorgere, in un
unico sguardo,
gli abissi più
segreti e le più
chiare
efflorescenze.
Meno esposti
alle minacce
dell'enfasi
orchestrale,
regolati da
vertiginosa
dialettica nel
discorso fra i
due violini la
viola e il
violoncello;
concentrati, a
tratti, in mondo
siffatto che il
doppio dialogo
andò a
confondersi
dentro
risolazione di
uno stoico
soliloquio;
attardati, ogni
tanto, nel
ricordo di
felicità
smarrite, di
feste godute o
vanamente
sperate, i
Quartetti
dell'ultimo
Beethoven si
inoltrano verso
zone dello
spirito che
nessuno, nè
prima nè dopo,
aveva mai osato
esplorare.
Sono sei codesti
capolavori,
addensati in un
periodo di poco
più di due anni
e tali da
superare di
molto i dieci
già composti a
lunghi
intervalli di
tempo. Il
Quartetto in si
bemolle op.130,
scritto
lentamente,
dalla primavera
all'autunno del
1825, consta di
parecchi
"movimenti",
disposti in un
ordine
assolutamente
eterodosso dal
punto di vista
della
disposizione
haydniana e
mozartiana.
S'apre con un
"Adagio non
troppo";
meditabondo e
inconcluso, il
cui inizio
ritorna cinque
volte a
interrompere, ad
arginare, a
deviare il corso
di un "Allegro"
fondato su tre
temi essenziali,
i primi due
gagliardi
rimbalzanti e
pieni di vita,
il terzo assai
più dolce e
sereno. In tutto
questo "Allegro"
circola un che
di fremente; e i
quattro
istrumenti ora
si ravvicinano
ora si espandono
verso registri
estremi; bruschi
passaggi, cesure
vigorose
spezzano il
discorso per
farne più
vertiginose le
riprese. Il
"Presto"
successivo par
travolgere con
maschia
accelerazione e
flagellare con
il pungolo di un
humour selvaggio
il galante
andamento della
vecchia Gavotta;
l'"Andante con
moto ma non
troppo" ("poco
scherzoso")
oscilla fra la
tenerezza e la
leggerezza, fra
la vaporosità e
la consistenza.
Il quinto
"tempo" ("Alla
danza tedesca,
allegro assai"),
scandito sopra
un ritmo
popolaresco,
alterna figure
di plasticità
incisiva con
episodi sfumati;
parole semplici
e forti con
sussurri e
mormorii
enigmatici.
Succede a questa
"tempo" la
famosa
"Cavatina"
("Adagio molto
espressivo") che
non ha nulla a
vedere con
l'omonimo pezzo
vocale, caro al
melodramma
dell'ultimo
Settecento, ma
che è una specie
d'inno cantato a
se stessi, una
specie di
preghiera
pronunciata nel
silenzio
notturno o una
specie di
interrogazione,
indirizzata
all'eterno e
raccolta dalla
pietà di qualche
angelo. Di
questa pagina
prodigiosa,
Beethoven disse
al violinista
Holtz "l'ho
composta
piangendo e il
solo suo ricordo
mi fa tornare
agli occhi le
lacrime!".
Il "Finale"
("Allegro")
costituisce il
brano meno
preoccupato di
tutto il
Quartetto. E' la
fiducia,
vittoriosa di
ogni precedente
inquietudine; è
la risorgenza
dell'uomo
coraggioso, il
congedo di un
forte, che entra
a testa alta nel
mondo ultraumano
delle verità
assolute.
Giulio
Confalonieri
(Columbia
33QCX 10026)
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