ARCOPHON


1 LP - AM 668 - (p) 1965
1 CD - CRA 8912-3 - (c) 1996

Carlo GESUALDO da Venosa (1566-1613)





MADRIGALI A CINQUE VOCI, LIBRO III (1595)




- Voi volete ch'io mora | Moro o non moro
4' 56"
- Ahi disperata vita 2' 14"
- Languisco e moro 2' 45"
- Del bel de bei vostri occhi 2' 30"
- Ahi dispietata e cruda 3' 54"
- Dolce spirto d'Amore 2' 25"
- Sospirava il mio core | O mal nati messaggi
5' 11"
- Veggio sì dal mio sole 3' 01"



- Non t'amo ò voce ingrata 2' 33"
- Meraviglia d'Amore | Ed ardo e vivo
3' 04"
- Crudelissima doglia 3' 25"
- Se piange ohime 3' 26"
- Ancidetemi pur 4' 14"
- Se vi miro pietosa 2' 40"
- Deh se già fu crudele 3' 04"
- Dolcissimo sospiro 3' 28"
- Donna se m'ancidete 3' 01"



 
QUINTETTO VOCALE ITALIANO / Angelo Ephrikian, direttore
- Karla Schlean, soprano
- Clara Foti, mezzosoprano
- Rashida Agosti, contralto
- Rodolfo Farolfi, tenore
- Gastone Sarti, basso
 






Luogo e data di registrazione
Villa Litta, Milano (Italia) - 11-19 marzo 1965

Registrazione: live / studio
studio

Producer / Engineer
Giambattista Pirelli / Karla Schlean - Angelo Ephrikian

Prima Edizione LP
Arcophon - AM 668 - (1 LP) - durata 57' 16" - (p) 1965 - Analogico

Edizione CD
Rivo Alto & Electa "Musica e Musei" - CRA 8912-3 - (1 CD) - durata 57' 16" - (c) 1996 - ADD

Note
In copertina (CD): Andrea Mantegna, Camera degli Sposi, parete dell'incontro (particolare dell'affresco) - Palazzo Ducale - Mantova











IL TERZO LIBRO DEI MADRIGALI
Il terzo libro dei madrigali di Gesualdo fu pubblicato per la prima volta a Ferrara nel 1595 da Hettore Gesualdo, per le stampe di Vittorio Baldini. Esso si colloca in un periodo singolarmente importante nell’evoluzione artistica del musicista, che cerca alacremente in se stesso e nell’assidua meditazione delle ricerche stilistiche dei contemporanei una misura espressiva più profondamente personale, in grado di tradurre compiutamente nell’immagine sonora la tormentata realtà del suo spirito. Il matrimonio con Leonora d’Este, avvenuto nel 1594, diede a Gesualdo l’opportunità di entrare in stretto contatto con la corte di Ferrara e con il fiorentissimo ambiente musicale della città, sul quale si imponeva la grande personalità di Luzzasco Luzzaschi. Nel Luzzaschi confluivano e si fondevano alcune delle più feconde e audaci esperienze di stile tentate dall’avanguardia musicale negli ultimi due decenni del Cinquecento: in ispecie l’elaborazione di una scrittura drammaticamente tesa e attenta a una mossa e intensa pittura della parola, nel tradizionale madrigale a cinque voci, e la creazione, sollecitata dall’evolversi della tecnica del cantare a solo e dalle particolari condizioni dell’ambiente ferrarese (si ponga mente al famoso "concerto delle dame", vanto della corte estense) del nuovo madrigale concertato per una, due, tre voci e strumenti. Esperienza, qest’ultima, che si affiancava ai tentativi della scuola fiorentina nella direzione della nuova vocalità monodica.
Una serie di preziose testimonianze permette di renderci conto con quale interesse Gesualdo seguisse i nuovi esperimenti formali: con quale impegno egli andasse provandosi, proprio nel presumibile periodo di preparazione di questo terzo libro, anche in direzioni che attraverso una più profonda meditazione egli doveva superare o scartare. Nel febbraio del 1594 Alfonso Fontanelli, diplomatico al servizio degli Estensi e musicista egli stesso, andato ad incontrare Gesualdo sulla via che lo conduceva da Napoli a Ferrara, notava: "Tratta di caccia e di musica et si dichiara professore dell’una et dell’altra. Sopra la caccia non si è steso molto più di tanto, perciò non ha trovato da me troppo riscontro, ma della musica mi ha detto tanto che io non ho udito altrettanto in an anno intero. Ne fa apertissima professione et espone le case sue partite a tutti per indurli a meraviglia dell'arte sua. Porta seco due mute de libri a cinque, tutte opere sue, [sono evidentemente i primi due libri di madrigali, dati alle stampe nello stesso anno in Ferrara]. (...) Dice d’aver lasciato quel primo stile et d'essersi messo all'imitazione del Luzzasco, da lui sommamente amato et celebrato; benché dica ch’egli non abhia fatto tutti i Madrigali col medesimo studio come pretende di voler mostrare a me stesso".
L’importanza della lezione stilistica del Luzzaschi per Gesualdo in questo momento delicato di ripensamento e di trapasso stilistico è confermata da altri numerosi elementi, di ordine musicale e documentario: tra l’altro, dal Luzzaschi stesso, che nella prefazione al suo quarto libro di madrigali (1594) dichiarava che il principe di Venosa aveva "con diverse maniere mostrato al Mondo di stimare, & lontano, & vicino le sue ancorchè deboli compositioni".
Nè meno determinante deve essere stata per il musicista la suggestione della scuola fiorentina, se il Fontanelli testimoniava, il 21 Maggio 1954: "Non cessa mai questo Serenissimo di esaltar le Arie di Firenze et particolarmente questa rnattina in soggetto della rnusica di codesti signori ha detto cose gradissime a un cardinale napoletano ch'ha discusso con lni s'egli sia più energico et efficace nell'esprimere"». E lo stesso Gesualdo si era in effetti cimentato nell'impresa di scrivere in quel torno di tempo "cinque o sei madrigali artificiosissimi, un Mottetto, un'Aria e ridotto a buon segno un dialogo a tre Soprani, fatto (...) per codeste Signore" (cioè per il famoso "Concerto delle dame" di Ferrara). Prove queste purtroppo perdute, ma che certo non hanno mancato di lasciare il segno sulla produzione posteriore del maestro, a cominciare proprio da questo terzo libro. Già da questo momento si nota la tendenza a staccarsi dalla tradizione illustre del madrigale di ascendenza "oltremontana", la cui suggestione è particolarmente evidente nelle prime sue due raccolte madrigalistiche, per avvicinarsi - come nota acutamente il Vatielli "a quello stile arioso che incominciava a praticarsi nelle musiche delle Conti italiane".
Aggiungeremo che ciò avviene anzitutto nel senso di una individuazione e di una caratterizzazione individualistica e drammatica delle singole voci, nel contesto - si badi - del tradizionale organico a cinque. L’impostazione contrappuntistica, anzichè essere negata, nel senso indicato dalle esperienze dei monodisti, e portata alle conseguenze estreme, attraverso un uso rigoroso e conseguente dell’imitazione. Il magistero di scrittura di cui Gesualdo fa prova nelle composizioni di questo libro è supremo: e questo sia nella sagace condotta canonica delle parti, sia nella perspicua ed equilibratissima strutturazione formale delle composizioni. Veramente, come dichiarava il curatore dell’edizione, Hettore Gesualdo, questi madrigali "per inventione, artificio, imitatione, ed osservanza di parole sono arnmirabili". Risulta anche da ciò sempre più chiaro che il linguaggio delle ultime opere di Gesualdo è frutto di una libera elezione stilistica, meditate e sofferta, non già, come tanti hanno affermato, riprendendo una valutazione decisamente errata del Burney, una felice improvvisazione di un dilettante geniale. Si puo applicare invece puntualmente a questi madrigali il giudizio che sullo stile di Gesualdo dava Vincenzo Giustiniani, nel Discorso sopra la musica dei suoi tempi, laddove li definitiva "pieni di molto artificio e di contraponto esquisito con fughe difficili e vaghe"; ed accogliere altresì la sua notazione circa l’eleganza e la finezza con la quale il musicista mascherava lo sforzo intellettuale dell’invenzione: "(...) perché questa esquisitezza di regola soleva render la composizione dura e scabrosa, procurava con ogni sforzo e industria di fare eletione di fughe che, se ben rendevano difficoltà nel comporle, fossero ariose e riuscissero dolci e correnti".
Accanto all’adozione di questo stile rigoroso e severo (inventione e artifcio) Gesualdo approfondisce la ricerca, si diceva, verso una resa più espressiva e vibrata, verso una più immediata caratterizzazione simbolica del testo (imitazione ed osservanza di parole). E sarà da notare, nella scelta delle poesie, la propensione verso componimenti che, abbondonato ogni accenno idillico o elegiaco, si concentrano in maniera direi quasi ossessiva su una tematica amorosa: un amore doloroso e tormentato nel quale l’oggetto del desiderio non si raggiunge mai, ma si agogna invano, in una bruciante, delusa tensione dei sensi e del cuore.
Questa, in sintesi, la linea di ispirazione del terzo libro che, con l’eccezione di pochi madrigali più immaturi, già "lasciati andare per le tavole e trascurati" dal musicista e inclusi nella raccolta dal curatore, appare unitaria e progressiva.

Voi volete ch'io mora,
Nè mi togliete ancora
Questa misera vita
E non mi date incontr'a morte aita.
Moro o non moro, omai non mi negate
Mercede o feritate!
Crudel, se voi mi fate
Morir quando non moro, qual martìre
Mi farete morendo, oimè, sentire?
Nelle due parti di questo ampio madrigale, Gesualdo risolve la contorta e manieristica concettosità del testo in un’intensa e pacata meditazione, svolta con una scrittura di severo equilibrio e di meraviglioso vigore formale. Dalla scura atmosfera timbrica emergono, evidenziati nel contesto e come fantasticamente dilatati, i temi chiave della tormentata esperienza esistenziale e artistica di Gesualdo: la passione amorosa, la sofferenza, la morte.

Ahi, disperata vita,
Che fuggendo il mio bene
Miseramente cade in mille pene!
Deh, torna alla tua luce alma e gradita
Che ti vuol dar aita!
Accanto a stilemi tradizionali della tecnica e della poetica del madrigale, si segnalano qui caratteristiche di scrittura che evocano la libera declamazione monodica: così nel mirabile esordio e nell’appassionata invocazione "deh torna alla tua vita", nella quale culmina l’arco espressivo della composizione.

Languisco e moro ahi, cruda!
Ma tu, fera cagion de la mia sorte,
Deh, per pietà, consola
Sì dolorosa morte
D’una lagrima solo,
Onde dica per fin del mio languire:
"Or che pietosa sei, dolce è 'l morire".
Come nelle massime prove di Gesualdo, il testo viene ridotto, in questo madrigale, a una successione di vibranti esclamazioni emotive, cariche di tensione e di pathos. E già si ritrova, pur nella limpida eleganza della scrittura imitata, quel gusto armonico scabro ed audace, volto a tradurre la violenza del contrasto di affetti che urge nell’animo del musicista. Da sottolineare la mossa contrapposizione delle voci, che conferisce al madrigale una virtuale caratterizzazione drammatica.

Del bel de' bei vostri occhi
Visse questa alma un tempo, or che ne è priva
Qual più virtù l'avviva?
Lasso, nè mort'è già; chè il mio tormento
Viv’in lei, viv’io sento;
Cibo amor le ministra onde non pera:
Vive di quel cbe spera.
Pur analiticamente lavorata in una minuta pittura dei singoli momenti espressivi, la musica descrive qui un arco fermo e unitario riunendo sinteticamente le sezioni attraverso le quali si articola, in un saldo insieme strutturale. Si noterà come Gesualdo abbia posto al centro della composizione il momento espressivo più rilevato e intenso (lasso, nè mort'è già), che spezza l'atmosfera di contenuta malinconia propria del madrigale.

Ahi, dispietata e cruda,
Dite, perchè piangete
Se morir mi vedete?
Forse perchè non solo
Mora del mio, ma più del vostro duolo?
Fiera e fallace voglia,
Io non posso morir di doppia doglia.
Un’ardente invocazione, nella quale l’impeto del sentimento prorompente pare spegnersi su una note di impotente tristezza, apre il madrigale. Si osservi come le linee vocali (specie la più acuta e rilevata, il soprano primo), mantengano nella prima parte un andamento indeciso, compreso nell’ambito angusto di un intervallo melodico di terza, caratterizzato da una sottolineata incertezza modale. Il seguito della composizione è svolto con un superbo e, parrebbe, talora compiaciuto magistero di stile.

Dolce spirto d’Amore,
In un sospir accolto!
Mentre io mira il bel volto
Spira vita al mio core;
Tal acquista valore
Da quella bella bocca
Che sospirando tocca.
E’ una parentesi delicatissima, nel clima introverso e meditativo della raccolta: la complessità del contrappunto imitato nulla toglie alla freschezza con la quale Gesualdo ha raccolto, ricreandolo, il motivo galante e sensuale suggeritogli dalla poesia.

Sospirava il mio core
Per uscir di dolore
Un sospir che dicea: "L’anima spiro!",
Quando la Donna mia più d’un sospiro
Anch’ella sospirò, che parea dire:
"Non morir, non morire!"
O mal nati messaggi e mal intesi,
In vista sì cortesi!
"Mori" dicesti oimè, "ma non finire"
"Sì tosto il tuo languire!"
La musica illustra con gesti di singolare chiarezza e immediatezza, attraverso un arioso svolgimento dialogico, la lieve vicenda d’affetti evocata dal testo, che riporta all’ambiente di cultura elegante e mondana nel quale sboccia il madrigale del Cinquecento.

Veggio, sì, dal mio sole
Sfavillar di pietà scintille ardenti,
Ma, lasso, Amor non vuole
Ch'io scopri i miei tormenti.
Deh, s’io spero mercè, qual empia forte
Vuol che amando e tacendo io giunga a morte?
Il madrigale si divide in due sezioni nettamente differenziate sul piano espressivo: la prima è condotta con stile vivace e spigliato (non sfugga, nelle prime battute la notevole iterazione dei ritardi di seconda tra le due voci sole), che fa luogo ben presto a una più sofferta misura sentimentale, all’apparire del motivo tormentoso dell’impossibilità di dar voce alla passione d’amore.

"Non t'amo, o voce ingrata",
La mia Donna mi disse,
E con pungente strale
Di duol e di martir l'alma trafisse.
Lasso, ben fu la piaga aspra e mortale;
Pur vissi e vivo. Ahi, non si può morire
Di duol e di martire.
E’ tra le composizioni più significative per esemplificare questo momento dell’evoluzione artistica di Gesualdo; sviluppata attraverso una successione di individualissimi incisi tematici, opportunamente alternati, nelle zone testualmente più neutre e narrative da un più veloce e meno personale contrappunto, presenta momenti già degni del più grande Gesualdo. Di grande bellezza anche la sospesa atmosfera timbrica della sezione finale, sulle parole privilegiata "di doglie e di martire".

Meraviglia d’Amore!
Qual vera aquila suole,
Mi vagheggio il mio sole:
Sole che a mille a mille
Sparge di sua beltà raggi e faville.
Ed ardo e vivo. Dolce aura gradita
L’ardor mi tempra e mi mantiene in vita:
Sì che arda pur il sol, ma spiri l’aura;
Chè se mi strugge l’un, l’altra ristaura.
Come giustamente ha sottolineato lo Einstein, si tratta di una composizione appartenente a uno stadio stilistico più arretrato e convenzionale, rispetto al livello generale della raccolta.

Cradelissima doglia!
Allor che più gioisco
A lagrimar m’invoglia
Menlre miro il mio amore.
Godo in mirar, in desiar languisco,
Ahi, che bellezza è ua fiore
Lieto a la vista, doloroso al core.
I1 tono sentimentale acquista qui un accento più marcato, che sdora l’enfasi nell’iterata esclamazione "languisco". Si segua con quale finezza il musicista venga sottolinendo mediante pungenti dissonanze di seconda, in tutta la sezione finale, l’inciso "doloroso al core".

Se piange, oimè, la Donna del mio core,
Ah, perche non debb’io
Sparger di pianto un rio?
Sfogate pur, mie luci, il mio dolore;
Ma se avverrà ch’io veggia in quel bel volto
Gioia, sia in gioia il pianger mio rivolto.
La patetica pittura musicale del testo e un senso robusto della costruzione musicale concorrono a fare di questo madrigale una delle più felici creazioni della raccolta. Il "crescendo" centrale, determinato da un progressivo concertrarsi e ispessirsi della materia musicale ha un possente empito espressivo: esso sfocia, dopo una vigorosa successione omoritmica, in un più morbido e meditativo dipanarsi delle linee melodiche, verso la sommessa risoluzione finale.

Ancidetemi pur, grievi martiri,
Chè il viver sì m’annoia
Che il morir mi fia gioia;
Ma giungan pria gli estremi miei sospiri
A pregar l’empia fera
Che miri come per amarla io pera.
L’insierne "corale" è spezzato in raggruppamenti vocali minori, chiamati a sottolineare, con gusto quasi da miniaturista, attraverso preziosi effetti timbrici e raffinati incontri dissonanti delle parti, le più riposte sfumature semantiche del testo.

Se vi miro, pietosa,
O bell’idolo mio, viva il mio core;
Se turbata o sdegnosa,
Ah, che languendo more.
E pur sempre v'adora,
O che viva o che mora.
La struttura musicale rispetta il simmetrico ritmo formale della poesia, infondendo nella nuda materia verbale il segno di una sensibilità squisita.

Deh, se già fu crudele al mio martìre,
Sia Madonna pietosa al mio morire!
Ah, che prego! Pietade
Or saria crudeltade!
Per dar fin al mio duol, giusto è ch'io moia;
Ella, che n'è cagion, ne senta gioia.
Ricorrono in questo madrigale alcuni dei temi chiave del mondo poetico di Gesualdo: lo strazio dell’amore non corrisposto, l'implorazione vana della pietà, la morte come agognata liberazione; infine un invito amaro alla donna a gioire della sua crudeltà. L’impiego di alcuni tradizionali stilemi madrigalistici (le colorature sul vocabolo "gioia"), acquistano nel contesto quasi il valore di uno sguardo amaro e disincantalo a un mondo di forme e di contenuti di cui il musicista sente ormai l'estraneità.

Dolcissimo sospiro,
Che esci da quella bocca
Ove d’Amor ogni dolcezza fiocca,
Deh, vieni a raddolcire
L'amaro mio dolore!
Ecco ch'io t’apro il core!
Ma, folle, a chi ridico il mia martire?
Ad un sospir errante
Che forse vola in seno ad altro amante.
Il tenero vagheggiamento della donna amata, dolce quanto irraggiungibile e lontana, svolto attraverso un lento e pacato succedersi di zone di splendida bellezza melodica e timbrica, contrasta con la sezione finale, nella quale la coscienza della inanità del penare per la bella ritrosa si traduce in un mosso gioco di correnti contrappunti, secondo quel gusto delle contrapposizioni stilistiche che riniarrà una caratteristica peculiare del nostro musicista.

Donna, se m'ancidete
La mia vita sarete,
Nè sperate già più ch’io chieggi aita!
Se amara è la mia vita
Dolce fia la mia morte;
Così, cangiando sorte,
La mia vita sarete,
Donna, se m’ancidete.
Si distingue dagli altri madrigali del terzo libro per essere a sei, anziché a cinque voci (di un libro di madrigali a sei voci di Gesualdo, pubblicato a Napoli da Mutio Effrem nel 1626 è pervenuta solo una parte). Alfred Einstein ha giustaniente notato che la grande intensità espressiva dell’invenzione melodica è tale da far pensare a una riduzione polifonica di una composizione nata in origine come una monodia accompagnata, in maniera analoga alle monteverdiane trascrizioni del Lamento d’Arianna.
Francesco Degrada