ISTITUTO GEOGRAFICO DE AGOSTINI


1 CD - GMD 2/6 - (c) 1988

I MAESTRI DELLA MUSICA









Ludwig van BEETHOVEN (1770-1827)
Concerto per Pianoforte e Orchestra N.3 in Do minore, Op. 37
29' 15"


- Allegro con brio
12' 21"

1

- Largo
8' 50"

2

- Rondò. Allegro
8' 04"

3

Concerto per Pianoforte e Orchestra N. 4 in Sol maggiore, Op. 58
32' 33"


- Allegro moderato
18' 02"

4

- Andante con moto 5' 02"

5

- Rondò. Vivace
9' 29"

6





 
Orchestra della RAI di Milano / Maurizio Pollini, Pianoforte / Antonio Janigro, Direttore Milano - 1 February 1963
Orchestra Scarlatti della RAi di Napoli / Maurizio Pollini, Pianoforte / Massimo Pradella Napoli - 10 December 1966
 






Manufactured
Tecval Memories SA (Switzerland)

Prima Edizione LP
(?)


Edizione CD
De Agostini | GMD 2/6 | 1 CD - durata 62' 19" | (c) 1988 | ADD

Note
-












CONCERTO PER PIANOFORTE E ORCHESTRA
N. 3 IN DO MINORE
Un giorno Beethoven, accennando con quella schiva riservatezza che gli era propria a un sentimento che lo commoveva nel profondo, confessò: «Questo si può dire solo col pianoforte». È quindi più che naturale che egli abbia sempre affidato al pianoforte il compito di rivelare le vertiginose sommità raggiunte dalla sua attività creativa sotto il profilo stilistico e spirituale. Il rango di egemone che il pianoforte ha mantenuto lungo tutto l'arco della produzione beethoveniana è testimoniato dal fatto che questo strumento è presente in ben 84 delle 138 composizioni catalogate con numero d'opera, tra le quali compaiono in posizione di rilievo i cinque concerti per pianoforte e orchestra, composti nello spazio di un quindicennio, tra il 1794 e il 1809.
Con il Concerto n. 3 op. 37 Beethoven imbocca la strada delle più radicali innovazioni, imprimendo una geniale e totale metamorfosi al rapporto fra lo strumento e l'orchestra, in quanto li obbliga a compenetrarsì sinfonicamente. Nel compatto e originale tessuto che caratterizza la nuova composizione non trova più posto la tecnica fine a se stessa, mentre a sua volta il virtuosismo finisce con l'essere veicolo di espressività.
Nell'esaminare gli aspetti e nel giudicare i valori del Concerto n. 3 la critica si è nettamente divisa in due opposti schieramenti, Giovanni Carli Ballola, ad esempio, l'ha trovato «opera ambiziosa e in buona parte velleitaria con la quale Beethoven ha compiuto il massimo sforzo verso la conquista di uno stile personale nel concertismo. È un'opera chiave nella parabola del concertismo beethoveniano, ma è un capolavoro mancato. Non devono trarre in inganno né la 'beethoveniana' e 'tragica' tonalità di do minore né le grandiose proporzioni, anche se queste, soprattutto nei tempi estremi, rappresentano qualcosa di assolutamente nuovo a quell'epoca
». Dal suo canto, Giacomo Manzoni ha replicato: «E' il primo pezzo per strumento solista e orchestra che rechi inconfondibili le tracce del genio beethoveniano. Ancora una volta la tonalità di do minore serve a Beethoven per scolpire uno dei suoi temi più plastici e incisivi: è la prima idea del Concerto che dà a tutto il pezzo un respiro veramente sinfonico, opponendosi più avanti al soave tema cantabile in mi bemolle. Il pianoforte acquista il ruolo di solista in vigorosa dialettica con la massa orchestrale, si definisce nella sua personalità di strumento, inteso già quasi in senso romantico, capace di palpitanti voli lirici e drammatici». La definizione di «capolavoro mancato» viene avvalorata da Eduardo Rescigno con la constatazione che nel Concerto n. 3 ci sono tutti gli elementi del Beethoven maggiore, ma utilizzati in maniera troppo programmatica per trasformarsi poeticamente.
A proposito del primo movimento, Allegro con brio, è stato anche detto che raramente esso si solleva da un generico drammaticísmo e che fra i suoi due temi principali - il primo enfatico e marziale, il secondo teneramente cantabile - non riesce quasi mai a instaurarsi una vera dialettica dei contrari, benché essi siano contrapposti in modo quasi ostentato. Va però sottolineato che i moti spirituali posti qui in contrasto non sono, diversamente dalla consuetudine beethoveniana, felicità e dolore, bene e male, bensì due espressioni di vita entrambe ottimistiche: una virile e marziale, l'altra di giovanile, gaia serenità. Ancora a proposito di questo primo tempo, il giudizio critico è concorde nel rilevare l'emozionante novità di un passo divenuto celebre: quello in cui, alla fine della cadenza del pianista, il timpano solo echeggia sommessamente un frammento del tema, dialogando con un arpeggio discendente del pianoforte.
Una calorosa unanimità è stata raggiunta nella valutazione sempre positiva, sovente entusiastica, del secondo tempo, Largo, considerato di altissima qualità musicale, che tocca vertici di rara bellezza e nobiltà di discorso in un'inedita atmosfera di intima contemplazione. È il pianoforte solo che propone e fa fiorire un ampio tema di estatica intensità lirica; l'orchestra risponde con suggestiva delicatezza e si intreccia così un sereno dialogo di ammaliante soavità, variato di disegni sempre rinnovati e suadenti.
Il terzo movimento, Rondò. Allegro, presenta diversi motivi di rusticità haydniana e spunti schubertiani che si fondono in episodi giocosi, ricchi di humour festevole anche se talvolta poco raffinato. Il momento più autentico e felice del Rondò, che offre al solista molte occasioni per emergere brillantemente, è l'inatteso finale in cui l'esuberante, travolgente allegria del giovane Beethoven prorompe nel crescendo conclusivo.
Il Concerto n. 3 venne eseguito per la prima volta a Vienna, il 5 aprile 1803, con Beethoven al pianoforte.
Silvestro Severgnini

CONCERTO PER PIANOFORTE E ORCHESTRA
N. 4 IN SOL MAGGIORE
La critica più autorevole ha esaltato il Concerto n. 4 come un capolavoro assoluto. In effetti è un'opera stupefacente per la novità e la complessità della struttura e per la prodigiosa originalità della concezione. Ancor più del Concerto n. 3 esso si stacca completamente dal concerto per pianoforte settecentesco, che aveva già dato, con Haydn e Mozart, lavori mirabili, e inaugura un'epoca del tutto nuova, palesando una tale intensità lirica da preannunciare perfino gli esiti espressivi dell'arte di Schumann e di Chopin. Ecco quindi perché Beethoven appare come il traitd'union fra il Classicismo e il Romanticismo musicale.
Dal punto di vista della resa dello strumento principe, questo è il più 'pianistico' dei concerti beethoveniani, specie nei confronti del Concerto n. 5, 'Imperatore', che è il più 'sinfonico'. Lo strumento solista non è già, come nel passato, primus inter pares, ma s'impone e rifulge come un vero dominatore, mentre all'orchestra è sovente riservato il ruolo di accompagnatri
ce. Ciò nonostante, il gioco straordinariamente moderno delle tonalità, i vividi contrasti timbrici, l'acceso dialogo tra il pianoforte e l'orchestra rendono la composizione esemplare per l'equilibrio della ripartizione dei ruoli, la concatenazione delle idee, l'efficacia degli episodi. È un lavoro che appartiene a quella miracolosa stagione che vede anche la creazione della Sinfonia n. 4, del Concerto in re maggiore per violino e orchestra, dei tre Quartetti op. 59 e gli studi preparatori della Sinfonia n. 5: in questa stagione Beethoven, come dichiara Walter Riezler, «è completamente se stesso
». Infatti la struttura sinfonica si allenta non solo nel pianoforte, che viene trattato con maggiore libertà, ma anche nelle introduzioni e negli intermezzi dell'orchestra, dove l'impalcatura strutturale è meno importante nei confronti della ricchezza delle idee pianistiche spesso sviluppate come in una 'fantasia'.
Contrariamente alla tradizione, è il pianoforte solo che inizia il concerto e propone, dolcemente esitante, un tema che è insieme calmo e alacre: un motivo pieno di fascino, dai risvolti lievemente misteriosi, ripreso più avanti dall'orchestra, la quale recupera anche il secondo tema, luminoso di floridi accenti. Ma tutto l'ampio sviluppo del primo movimento, Allegro moderato, che ha la felice impronta delle cose vive per forza dialettica, sapienza costruttiva, dovizia di spunti, è governato magistralmente dal pianoforte che instaura con l'orchestra, come ha rilevato Carli Ballola, un clima di 'affinità elettive', in un dialogo pacato, ma ricco di chiaroscuri e intenso di risonanze. Ogni frase degli strumenti viene ripresa dal pianoforte e trasfigurata attraverso il procedimento della variazione continua, proprio dell'arte beethoveniana più matura.
Quasi come un intensissimo, breve interludio, l'Andante con moto si inserisce tra il primo e il terzo movimento, e costituisce un momento veramente unico nella storia della musica. Per intenderne tutta la portata artistica e spirituale, va ricordata la formulazione data da Beethoven in un suo taccuino di un concetto enunciato da Kant nei Primi principi metafisici della scienza della natura: «Nell'anima come nel mondo fisico agiscono due forze ugualmente grandi, ugualmente semplici, desunte da uno stesso principio generale: la forza di repulsione e la forza di attrazione». Ora il compositore ha voluto instaurare nella musica, come già Kant nella filosofia, questa concezione dei principi opposti; ed ecco nell'Andante con moto l'urto insanabile tra il 'principio d'opposizione', caratterizzato da energia ritmica, concisione melodica e netta determinazione tonale e affidato all'orchestra, e il 'principio implorante', caratterizzato da un tema melodico tonalmente indeterminato e modulante affidato al pianoforte. A proposito di questo movimento osserva Carli Ballola: «Mai prima d'ora i due poli della dialettica beethoveniana erano apparsi tesi in così lancinante conflitto». Per la sua enorme carica emotiva è indubbiamente una delle più alte manifestazioni del genio di Beethoven; Alfredo Casella afferma che esso «non ha precedenti nella storia della musica e - come l'Allegretto della Settima Sinfonia e la cavatina del Quartetto in mi bemolle - sembra sorto improvvisamente dal mistero delle cose eterne».
Il terzo movimento del concerto, Rondò. Vivace, contrasta felicemente col carattere del secondo movimento, al quale si ricollega senza interruzione. È una pagina di squisita eleganza, folta d'invenzioni, dotata di un'accesa spigliatezza ritmica e animata da un'indomita vitalità. Il pianoforte signoreggia per l'arditezza di certi episodi realizzati con una tecnica inconsueta al pianismo del tempo. Questo Rondò, che arriva pianissimo, quasi furtivo e di sorpresa, si muove con sicura baldanza e con attraente piglio marziale: sembra un vibrante appello alla serenità rivolto a tutti gli uomini.
Silvestro Severgnini